La Prescrizione nel Sistema 231: questioni ancora aperte – sentenza n. 30634/2019

La Suprema Corte di Cassazione è tornata ancora una volta a pronunciarsi su un argomento che, negli ultimi tempi, ha assunto un grande rilievo giuridico, ovvero quello della prescrizione applicata alla normativa della responsabilità da reato degli enti. L’importanza del tema si comprende anche in ragione del contrasto giurisprudenziale che, proprio negli ultimi anni, si è acuito in seno ai giudici di legittimità.

Più in particolare, il tema dibattuto riguarda gli effetti della prescrizione applicata alla normativa 231 e, in particolare, l’art. 22 del D.Lgs. 231/2001, il quale regola il predetto istituto giuridico.

È bene precisare che la disciplina della prescrizione di cui al D.Lgs. 231/2001 presenta una struttura ibrida, con forti commistioni fra il diritto penale e quello civile.
L’art. 22 (commi 1 e 2), prevede un termine prescrizionale di 5 anni che, a decorrere dalla consumazione del reato presupposto, è suscettibile di essere interrotto in due soli casi:
  • con la richiesta di applicazione di una misura cautelare interdittiva;
  • quando vi è contestazione a norma dell’art. 59.
In quest’ultimo caso, il quarto comma dell’art. 22 prevede la sospensione del decorso della prescrizione fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento nei confronti dell’autore materiale del reato.
L’art. 59, comma 1 D.Lgs. 231/2001, nel disciplinare le modalità della contestazione, richiama gli atti elencati all’art. 405, comma 1, c.p.p., fra cui, com’è noto, compare anche la richiesta di rinvio a giudizio.

Ebbene, il punto oggetto della controversia che ha interessato la suprema Corte è l’individuazione del momento in cui si producono gli effetti interruttivi della richiesta di rinvio a giudizio dell’ente.
Un primo orientamento, rappresentato dalla Sezione II con la sentenza n. 41012/18, fa decorrere gli effetti interruttivi della prescrizione a seguito della sola emissione della contestazione dell’illecito all’ente, così come previsto in ambito processuale penale a norma dell’art. 405, comma 1, c.p.p.
Dunque, stando a questo indirizzo, gli effetti interruttivi della prescrizione cesseranno con l’emissione del decreto di rinvio a giudizio come previsto dall’art. 160 c.p. e non certo con la sua notifica, non essendo lo stesso un atto recettizio.
Un secondo orientamento, rappresentato dalla Sezione V con la sentenza n. 1825/15, mutuando dalla prescrizione civile, sostiene invece che il decreto di rinvio a giudizio avrebbe natura recettizia, in virtù del richiamo alla disciplina civilistica della prescrizione (art. 2943 ss. c.c.) contenuto nella legge delega 29 settembre 2000, n. 300.
Pertanto, secondo il suddetto orientamento, in ambito 231 l’istituto della prescrizione sarebbe regolato dalle norme del codice civile, con la conseguenza che il decreto che dispone il giudizio interrompe la prescrizione non con la sua emissione da parte del P.M. ma a seguito della effettiva ricezione da parte dell’imputato, rivestendo la natura civilistica di atto recettizio, al pari di una messa in mora inviata al debitore.

Ebbene, la sentenza 30634/2019 in commento, si assesta sulle posizioni del primo orientamento, ritenendo che l’interruzione della prescrizione sia posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l’interruzione della prescrizione nei confronti dell’imputato e coincidere, pertanto, con l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione.
Come si può intuire, la questione è ancora aperta e gli effetti pratici dell’adesione all’una o all’altra tesi non sono di poco conto.
A questo punto, si auspica quanto prima un intervento delle Sezioni Unite, per porre fine ad una situazione dai contorni assai incerti.



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Pubblicato in Modello 231, Sentenze.